La santità della Chiesa (10): la virtù di religione

Fonte: FSSPX Attualità

Il santo Curato d’Ars in preghiera, di Emilien Cabuchet

Collegata alla virtù di giustizia, la virtù di religione condivide con essa la necessità di rendere un vero debito, ma stavolta nei confronti di Dio stesso. Tale virtù differisce dalla giustizia in senso stretto proprio per l’impossibilità di rendere a uguaglianza ciò che dobbiamo a Dio. La religione inclina dunque l’uomo a rendere il culto dovuto a Dio, nostro Creatore e Signore e supremo principio dal quale veniamo.

 

La religione può considerarsi come virtù generale: infatti ogni atto buono può essere trasformato in un atto di culto a Dio, con il quale offriamo qualcosa di noi stessi alla maestà divina. Si può facilmente intuire quanto una simile virtù abbia permeato la vita dei santi. Certo, a differenza delle virtù teologali non ha Dio per oggetto diretto: tuttavia Dio ne è l’oggetto mediato, tramite appunto gli atti del culto, imperati dalla religione. Ora tali atti sono spesso atti di fede, speranza e carità. Si capisce allora il ruolo preminente di questa virtù sulle altre virtù morali.

Gli atti della religione

Si enumerano tra gli atti della virtù di religione la devozione, l’orazione e l’adorazione.

La devozione è una pronta volontà di darsi a ciò che riguarda il servizio divino, di cui fu esempio innanzitutto Nostro Signore: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Giov. 4, 34). Se la carità ci rende pronti a darci a Dio, la devozione riguarda direttamente le opere del culto divino, che i santi hanno svolto con zelo, fuggendo l’accidia (che si configura quindi come il vizio opposto alla devozione).

La devozione dei santi si è manifestata specialmente nella prontezza e facilità nel compiere gli atti del culto, nel dare volentieri tempo all’orazione, o nel modo stesso con cui hanno compiuto i gesti esteriori della preghiera. Si racconta di san Luigi Gonzaga che passava la notte, anche in pieno inverno, vestito della sola tunica, inginocchiato o prostrato, nella contemplazione delle cose celesti: per questa costanza ebbe il dono della stabilità della mente nella preghiera, senza più alcuna distrazione, fino ad una specie di estasi perpetua.

L’orazione (cioè la preghiera) è stata per tutti i santi la principale attività, in tutte le sue forme: liturgica e pubblica, personale, di intercessione o di ringraziamento. Quanto alla liturgia, furono i santi (specialmente i Padri della Chiesa e i grandi fondatori dei primi ordini monastici) a regolarla e a lasciarci quel tesoro costituito dai vari riti tradizionali della Chiesa. L’argomento dell’opera dei santi in materia liturgica meriterebbe una trattazione a sé stante, e renderebbe ancora più assurda la pretesa di fare tabula rasa di un tale patrimonio, messa in atto ai tempi di Paolo VI.

Non sarebbe nemmeno possibile elencare esempi del tempo che i santi passavano personalmente in orazione: a livello apologetico, ci basti mostrare come le preghiere di intercessione dei santi, conformi sempre alla volontà divina, abbiano ottenuti risultati miracolosi. Fu la preghiera di santo Stefano, ai primordi della Chiesa, ad ottenere la conversione di san Paolo; fu la preghiera di san Gregorio il Taumaturgo a spostare una montagna che impediva la costruzione di una chiesa (dando così un esempio letterale di quanto promesso nel Vangelo).

Quanto all’adorazione, sebbene sia in qualche modo inclusa negli atti dell’orazione stessa, essa si manifesta anche specificamente in atti specifici di culto. Si può qui citare in particolare l’adorazione che i santi mostrarono al Santissimo Sacramento: in esso il grande teologo san Tommaso d’Aquino cercava la sapienza; l’umile frate san Pasquale Baylon dedicò la vita all’adorazione dell’Ostia, al punto che perfino durante il proprio funerale egli aprì gli occhi in adorazione.

I voti

Altro atto di questa virtù è il voto, con il quale un’azione buona diventa anche atto di religione, in quanto promessa a Dio. In particolare, i voti di povertà, castità e obbedienza (detti appunto voti di religione) consacrano tutto l’uomo e le sue azioni al culto divino, seguendo i consigli del Vangelo.

L’uomo che ha promesso a Dio di rinunciare ai propri appetiti terreni e perfino alla propria volontà diventa in qualche modo sacro. La vita religiosa, fondata sulle parole del Cristo, è uno dei segni della divinità della Chiesa cattolica e furono proprio i santi a diffonderla e stabilirla.

Tutti i grandi ordini religiosi, così come la gran parte delle congregazioni, furono fondati da santi: gli uomini hanno voluto consacrarsi a Dio sull’esempio e la regola di questi grandi personaggi. La regola di san Benedetto è la consacrazione dell’uomo e del tempo al culto divino, facendo del monaco un essere completamente dedicato all’opera della liturgia. La regola di san Francesco, sull’esempio di colui che la scrisse, distacca l’uomo dall’appetito dei beni terreni nel modo più radicale possibile, facendone un’offerta costante a Dio. Lo speciale voto di obbedienza al Pontefice dei gesuiti fa delle loro vite un dono al bene comune della Chiesa, visto dal punto di vista più alto.

Ogni vita religiosa comprende il voto della castità, cioè la dedicazione sacra a Dio di ciò che l’uomo ha di più profondo (e di più disordinato, dopo il peccato originale): l’appetito che spinge alla generazione. La castità, di cui parleremo nel capitolo sulla temperanza, diventa così il mezzo di offrire a Dio una vittima integra, di compiere in se stessi l’offerta più totale. Tale voto è comune a tutti coloro che si consacrano a Dio, partendo dalle sante vergini dell’antichità, spesso messe a morte per aver rifiutato il matrimonio dopo che avevano offerto se stesse a Dio.

La lotta all’empietà e all’irreligione

Non si può descrivere la virtù di religione nei santi senza accennare al loro odio per i peccati contro questa virtù: la superstizione, la magia, la bestemmia, la simonia ed il sacrilegio.

Fin dall’antichità vediamo i martiri mossi dallo Spirito santo contro le superstizioni dei pagani: anche sapendo che sarebbe costato loro la vita, alcuni di essi si sono levati ad abbattere le statue degli idoli: così fu per san Biagio, vescovo di Sebaste, che non solo rifiutò di adorare gli idoli ma li rovesciò. San Benedetto stesso a Montecassino abbatté i tempietti di Apollo e Giove erigendo delle chiese a san Martino e san Giovanni Battista; nelle lettere di san Gregorio Magno a sant’Agostino di Canterbury, da lui mandato ad evangelizzare gli anglosassoni, si trovano molte raccomandazioni di bruciare gli idoli pagani ed edificare chiese al loro posto.

Dall’Inghilterra, san Bonifacio si recò in Germania con la benedizione papale per evangelizzare i tedeschi ancora pagani e fu fatto vescovo. Un giorno si recò in un villaggio e predicò la Trinità. Poiché gli anziani del villaggio gli risposero che il Dio di Bonifacio era "invisibile" mentre la loro Quercia di Odino era un simbolo ben più reale, san Bonifacio abbatté la quercia a colpi d'ascia, dicendo loro "dov'è il vostro dio adesso?". Con il legno della quercia fu edificata la Croce innalzata sulla chiesa del villaggio. 

Nello stesso solco si situa la lotta di san Gregorio VII o del diacono martire sant’Arialdo contro la simonia ed il nicolaismo: essi volevano che gli appetiti mondano stessero lontani dagli altari, dedicati unicamente al culto divino. Da zelo di religione procedeva pure la lotta di san Bernardino o san Leonardo da Porto Maurizio contro la bestemmia.